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6 Novembre 2019

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Intervista a Nicola Borzi, storia di uno scandalo

Come il giornalista whistleblower ha scoperchiato i reati dell'ex dirigenza del Sole 24 Ore

di Chiara Caprio

Questo articolo è apparso il 17 marzo 2017 sul blog di Riparte il futuro

C’è un libro ambientato negli anni 70 che racconta molto bene le ambiguità dei giornali italiani e dei suoi editori. Si chiama “Comprati e Venduti”, ed è stato scritto da Giampaolo Pansa, ma mai come oggi quel titolo torna attuale. Secondo l’accusa della magistratura infatti, l’ormai ex direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano e altri nove ex manager del gruppo avrebbero gonfiato il numero di copie digitali e cartacee del giornale, facendo false comunicazioni sociali e ottenendo un ingiusto profitto da abbonamenti inesistenti. In polemica con la dirigenza e contro Napoletano, i giornalisti hanno scioperato per giorni, bloccando la pubblicazione del giornale.
Oggi le rotative hanno ripreso a lavorare ma la situazione del gruppo rimane ancora incerta per via del buco economico e di un’inchiesta appena conclusa che potrebbe allargarsi. Di questa vicenda si parlava – a bassa voce – da anni nei corridoi del Sole 24 Ore, ma solo una persona ha indagato internamente per far venire alla luce i reati che mettono a rischio un’azienda da 1200 dipendenti: il giornalista finanziario Nicola Borzi. Autore anche di un libro sul caso Enron e caposervizio del quotidiano, Borzi ha lavorato in segreto per sette anni prima di pubblicare i due esposti che nel 2016 hanno inchiodato gli ex vertici dell’azienda.

Come è iniziata questa sua inchiesta “sotto traccia”?

Io nel 2010 ero nel comitato di redazione del Sole 24 Ore e ho cominciato a seguire le vicende della redazione dal punto di vista sindacale. In questo rientravano anche i discorsi organizzativi per l’allargamento della pianta organica del giornale per l’ingresso di nuovi colleghi. Quando nel 2010 in primavera si parlò della fusione per incorporazione nel Sole 24 Ore Spa di questa società che si chiamava GPP cominciai a capire che c’era qualcosa che non quadrava, perché incorporare una società in un’altra significa togliere alla società incorporata il bilancio: se si toglie il bilancio non si è più in condizione di vedere come sono i conti, se la società è in utile o in perdita. Su quell’operazione in particolare avevo molte perplessità perché sapevo com’era nata e mi ero studiato tutta la documentazione che risaliva alla quotazione, che mostrava che l’avevamo comprata strapagandola, versando 40 milioni di euro. Quindi, sapendo che dall’epoca della quotazione del 2007 al 2010 aveva perso, capivo che c’era la volontà di seppellire i conti, di farli sparire.
Mi misi a lavorare recuperando diversi documenti e informazioni da varie banche dati, facendo il mio lavoro da giornalista finanziario. In questo modo identificai una serie di operazioni sospette, come ad esempio la creazione di azionisti tra il momento in cui avevamo acquistato una parte e il momento in cui avevamo completato l’acquisto della GPP, azionisti che investendo poche decine di migliaia di euro si erano portati a casa 4 milioni, cioè il 10% della transazione finale della GPP. All’epoca preparai quindi un esposto alla Consob, interamente basato su documenti, chiedendo alla nostra azienda di valutare se il prezzo di acquisto pagato per la GPP era congruo o non era stata piuttosto un’operazione gonfiata. La Consob scrisse al collegio sindacale chiedendo se era tutto in ordine e ovviamente cosa fece il collegio sindacale, essendo quello che aveva firmato i bilanci? Disse che andava tutto bene. Allora cominciai a capire che c’era qualcosa che non andava, anche perché c’erano anomalie evidenti.

Che cosa l’ha insospettita?

Te ne cito una su tutte: a parte il prezzo sproporzionato per una società che aveva sempre prodotto perdite, c’era ad esempio l’anomalia che la società di revisione KPMG era la società che aveva rivisto i conti della GPP, che aveva rivisto i conti del Sole 24 Ore che era la parte acquirente, era la società che aveva rivisto i conti della società venditrice, che era la Wise SGR, ed era la società di revisione che aveva anche fatto la “due diligence” dell’operazione, quindi aveva recitato quattro parti in commedia. Da quel momento, poiché come azionista partecipavo alle assemblee societarie, cominciai a usufruire della possibilità di dire la mia all’assemblea degli azionisti e presentai una serie di domande all’azienda, ma mi accorsi che cadevano nel vuoto.

A quel punto che cosa è successo?  

Nel 2011, quando mi accorsi che la direzione Riotta ci stava portando contro gli scogli perché continuavamo a perdere copie, anche se non ero più nel Cdr fui io il giornalista che presentò la mozione di sfiducia a Riotta che fu votata dal 70% dei colleghi. Così, poche settimane dopo quel voto, alla direzione gli subentrò Napoletano. Il primo anno di direzione Napoletano debbo dire non fu male: rimise in carreggiata il giornale, lo riportò ad essere Il Sole 24  Ore, organo di informazione economico-finanziaria. Però già dall’inizio del 2013, cioè dopo poco più di  un anno e mezzo di direzione Napoletano, mi cominciarono ad arrivare dall’interno dell’azienda, da fonti mie di altri uffici, segnalazioni. Le mie fonti mi dicevano che cominciavano ad apparire operazioni sospette. Allora sotto traccia, perché ovviamente non potevo mettere la testa fuori dall’acqua, continuai questo lavoro di scavo all’interno su tutte le vicende che non apparivano ma che io sapevo per certo, da varie fonti, che continuavano ad andare avanti. Negli anni ho raccolto tutta una serie di informazioni. Ad esempio, il nome della Di Source lo conoscevo già dal 2013. Il problema qual era? Che le mie erano fonti orali, perché le persone che in azienda mi passavano informazioni non erano in grado di passarmi alcun documento, perché tutte le volte che una mia fonte si avvicinava ai documenti della Di Source, che erano documenti stoccati sui server digitali, ogni volta che qualcuno chiedeva delle fatture, quella persona, che aveva lasciato le sue “impronte digitali” sui sistemi interni veniva presa e allontanata in un altro ufficio. È per questo che io parlai di documenti secretati: perché queste informazioni non erano di tutti, c’erano delle password che erano solo di alcuni operatori e non di tutti. Quindi ecco, ho cominciato a raccogliere informazioni per anni, e già dal 2015 sapevo che i fiduciari che avevano costituito la Di Source a Londra, questo Martin William Gordon Palmer del gruppo Jordan erano gli stessi fiduciari che avevano costruito per Lionel Messi, il giocatore del Barcellona, le “scatole finanziarie” che erano servite al bomber argentino a nascondere al fisco spagnolo i soldi degli sponsor, vicenda per la quale Messi è andato a processo in Spagna. Ma non c’erano collegamenti con il Sole 24 Ore: avevo la documentazione di fondazione della Di Source, avevo il nome del fiduciario, ma non si riusciva a capire chi fosse l’azionista, chi fossero gli azionisti, che si nascondevano dietro il fiduciario. Né si riusciva a stabilire in modo sicuro una connessione con Il Sole 24 Ore.

Poi cos’è cambiato?

Quando nel 2016 è arrivato in azienda l’amministratore delegato Gabriele Del Torchio, che ha sostituito Donatella Treu, ho capito che si era creata una situazione positiva: mentre i precedenti amministratori avevano tenuto tutto nascosto sotto una cappa di opacità, Del Torchio cominciava a fare un’operazione di pulizia e di verità sui conti. Quando Del Torchio, il 30 settembre 2016, presentò la semestrale al 30 giugno, la sostituzione del revisore dei conti fece emergere una perdita patrimoniale di 7,5 milioni. Non solo: l’ad operò una revisione dei bilanci dal 2012 – guarda caso – al 2015. A quel punto io capii che si era creato uno spiraglio nel quale potevo cercare di entrare per poter fare venire alla luce tutte le informazioni che avevo raccolto. E ne sapevo veramente tante: da parecchio tempo ho una serie di hard disk sia fisici sia virtuali nei quali ho stoccato decine e decine di giga di documenti. Solo che mi mancava il collegamento con la Di Source, che non era ancora uscito.

Quindi come ha deciso di procedere?

Il 5 di ottobre ho presentato il mio primo esposto del 2016 al collegio sindacale del Sole 24 Ore e alla Consob, segnalando alcune voci del nostro stato patrimoniale che secondo me richiedevano un riesame da parte della Consob e dei nostri sindaci. Dentro quell’esposto indicavo il nome della Di Source ma non avevo ancora sotto mano un collegamento preciso. Poi mi venne un’idea: andare a vedere tutte le società costituite da questo fiduciario, Martin William Gordon Palmer, per controllare se ce n’erano altre che fossero riconducibili a noi. All’interno di questo numero sterminato di società, perché Palmer fa questo di lavoro, crea società britanniche per azionisti “coperti”, ce n’era una che mi ha acceso una lampadina. Si chiamava Fleet Street News Limited. Fleet Street a Londra è la via dove un tempo avevano la sede le redazioni dei principali giornali inglesi. Allora ho controllato questa società, ho scoperto che il 100% della Fleet Street era della Di Source, e ho trovato il nome di un italiano, Filippo Beltramini. Questo accadeva nella notte del 6 ottobre 2016. A quel punto ho messo il nome di Beltramini su Google e ho trovato il suo profilo LinkedIn, ho trovato tra i suoi contatti un certo Di Rocco e ho visto che Di Rocco aveva lavorato come consulente al Sole 24 Ore nel 2012, proprio nell’area digitale che si occupava dei ricavi. Allora ho preso i loro nomi e li ho cercati su Cerved, la banca dati delle imprese italiane, e ho trovato questa società, Bw Consulting di Muggiò. Ho guardato bene questa società e c’erano anche altri nomi, altri clienti e ho cominciato a capire che c’era un primo nesso ma molto flebile, perché Il Sole 24 Ore non appariva tra i clienti. Allora ho inserito sul sito web di Pagine Bianche i nomi di Beltramini e Di Rocco e gli indirizzi che avevo trovato su Cerved e sono apparsi dei numeri di telefono fisso. La mattina del 7 ottobre 2016 ho chiamato il primo numero, che era quello della casa di Beltramini, ma dalla voce ho capito che non poteva essere lui perché aveva un tono da persona più anziana. Ho detto a questa persona che ero un amico di Filippo e che avevo perso il suo numero di cellulare. Questa persona mi ha dato il numero di cellulare di Beltramini: l’ho chiamato subito ma mi ha risposto che non poteva parlare perché era in riunione. Quando mi ha richiamato ero in riunione io e allora abbiamo iniziato a comunicare via sms. Allora gli ho chiesto conferme sulle due società, sulla loro collaborazione con Il Sole 24 Ore e sugli abbonamenti digitali. Gli ho chiesto anche quali fossero i suoi contatti al Sole e lui mi ha dato un nome che ho verificato esistere tra i dipendenti della nostra azienda. Io gli ho detto che avrei usato queste informazioni per trasparenza e lui mi ha detto che andava bene. Da BlackBerry questi sms si possono trasferire sull’email, cosa che ho fatto. Così ho preparato il secondo esposto, quello del 7 ottobre, e ho chiesto lumi al collegio sindacale e alla Consob su questa vicenda.

E il collegio sindacale che cosa ha risposto?

Mi hanno chiesto un appuntamento per la settimana successiva, anche perché nel frattempo l’associazione consumatori Adusbef guidata da Elio Lannutti aveva presentato degli esposti in Procura della Repubblica contro Il Sole 24 Ore per falso in bilancio. Come dipendente io invece mi sono mosso sul piano del diritto civile, usando quegli strumenti che il codice civile italiano e il diritto europeo prevedono per la tutela dei piccoli azionisti. Non ero collegato a questa iniziativa penale. Comunque, mi hanno convocato una settimana dopo e in questo incontro a porte chiuse ho presentato al collegio sindacale tutta una serie di altre informazioni, come per esempio i rapporti con il gruppo Johnson che intermediava decine di migliaia di copie cartacee per Il Sole 24 Ore. Ho indicato anche la cartolarizzazione di crediti con la società Kleinein del gruppo Omniatel, ho indicato alcune questioni relative alla revisione patrimoniale fatta dal professor Mauro Bini della Bocconi. Poi mi sono messo in attesa.
Nel frattempo Gabriele Del Torchio veniva rimosso dalla carica di amministratore delegato, ma faceva in tempo a chiedere a una società esterna, Protiviti, una revisione della diffusione del giornale. Protiviti pubblicava un report che veniva reso noto agli inizi di novembre nel quale spiegava al nostro consiglio di amministrazione che in effetti c’erano dei numeri molto dubbi sul fronte della diffusione digitale. Poi nel frattempo l’inchiesta della Procura è andata avanti e tutte le cose che ho scritto negli esposti sono state verificate dai magistrati, verificando anche la catena di società che gonfiavano le copie digitali multiple e le copie cartacee gestite dal gruppo Johnson e da altre società, che invece di andare in edicola andavano direttamente al macero. Quindi tutto questo è stato verificato o almeno questa è la tesi dell’accusa, perché ovviamente il processo si deve ancora fare.

Ma quindi in tutti questi anni la Consob non vi ha mai risposto?

No. Per il momento ci ha risposto solo il collegio sindacale e siamo ancora in attesa della risposta della Consob. Ovviamente, di concerto con la Procura, la Consob a ottobre aveva già mandato la Guardia di Finanza a prendere documenti e fare accertamenti nella sede del Sole 24 Ore. Ora siamo in attesa di una risposta o di possibili sanzioni. Per quanto riguarda invece l’esposto dell’11 maggio 2010 sull’acquisizione di GPP, la Consob avviò uno scambio di informazioni con il nostro collegio sindacale ma questo non portò a niente di concreto. Adesso però, dal decreto di perquisizione uscito dalla Procura, sta emergendo che gli inquirenti stanno indagando anche su quell’operazione, quella che noi avevamo segnalato nel 2010. L’avevamo ritenuta un’operazione anomala perché, oltre al costo di acquisizione e alle svalutazioni succedutesi, la Procura sta indagando sulla cessione della GPP/Business Media del gennaio 2014 a terzi. GPP/Business Media è stata venduta dando dei soldi a chi se l’è comprata, circa 10 milioni di euro di cassa a spese ovviamente del Sole 24 Ore. Una cessione in perdita per la nostra azienda, quando c’erano altri acquirenti che avevano presentato offerta positive per Il Sole 24 Ore, e che ora sono oggetto di interesse da parte della magistratura. Secondo i miei calcoli, tutta l’operazione GPP alla fine è costata al Sole 24 Ore circa 75 milioni di euro.

Perchè Beltramini è stato così aperto con lei, quasi ingenuo?

Beltramini ha anche parlato alla magistratura, nell’interrogatorio del 10 febbraio lui ha fatto i nomi di Arioli e di altri come soci occulti della Di Source. Secondo me, Beltramini si aspettava che questa storia prima o poi sarebbe uscita e voleva liberarsi di un peso.

Come mai è stato creato un sistema così complesso?

Perché il sistema di rilevazione e controllo delle copie digitali è molto macchinoso: in base alle regole stabilite dalla società Accertamenti diffusione Stampa (Ads), che controlla la diffusione della stampa italiana, bisogna dimostrare con degli indirizzi e dei dati anagrafici che i clienti e gli abbonati siano reali. Quindi era necessario creare delle attivazioni di download delle copie digitali dal web e dimostrare così che i clienti fossero reali, anche se poi non lo erano. Tra l’altro, anche tutto questo sistema, come è stato dimostrato dai documenti messi a disposizione degli inquirenti da Beltramini, è stato verificato che realizzava un giro di fatture in entrata e in uscita dal Sole 24 Ore. Il doppio giro di flussi finanziari a danno del Sole 24 Ore l’avevo segnalato nei miei esposti. Il contratto con Di Source all’epoca era stato firmato dall’ad Donatella Treu a dicembre 2012. Com’era possibile che pochi giorni dopo la costituzione della società britannica, fondata a novembre 2012, una società che non aveva nomi affermati né manager di fama, che non aveva nemmeno un sito internet, com’era possibile che Treu sapesse già dell’esistenza e dei servizi della Di Source e che si fosse accertata di tutto? Il contratto triennale con Di Source fu poi rinnovato dalla Treu nel 2015 e poi sciolto da Del Torchio. Tutto questo contratto per altro ha costituito un flusso in uscita dal Sole 24 Ore di 18,5 milioni di euro e uno in ingresso al Sole per soli 15,5 milioni di entrate: quindi per Il Sole24Ore ha rappresentato un costo di almeno 3 milioni di euro che ora bisogna capire dove sono, se sono andati agli azionisti di Di Source (che secondo i magistrati sono Arioli, Beltramini, Quintarelli e altri) o se sono rimasti all’estero come una sorta di “fondo cassa” in “nero” per essere poi utilizzati per altre operazioni.

I suoi colleghi come hanno reagito? Sapevano del suo lavoro?  

Nessuno dei miei colleghi lo sapeva: ho portato avanti questa inchiesta in solitaria perché non volevo coinvolgere persone che hanno anche il titolo di azionisti all’interno di questa azienda. Se lo avessi comunicato avrei creato potenzialmente il rischio di reati, come quello di insider trading o aggiotaggio, perché tutti noi, in quanto azionisti, siamo in conflitto di interessi ovviamente. Le fonti che avevo facevano tutte parte di altri dipartimenti, del dipartimento della distribuzione, del reparto amministrativo, della stampa del giornale, ma non ho collaborato con gli altri della redazione proprio perché avrebbe creato dei problemi anche molto gravi.

Che cosa ne sarà adesso del Sole 24 Ore?

Io non posso dirlo, però una cosa è certa: tutte queste operazioni hanno danneggiato economicamente la società. A oggi il patrimonio netto negativo è di 7 milioni di euro: quindi o si ricapitalizza o bisogna dichiarare fallimento. I fondi della ricapitalizzazione non sono ancora arrivati anche se Confindustria sembra orientata in questo senso. Nel frattempo siamo molto esposti con le banche e stiamo rinegoziando il debito, ma le banche non sembrano disposte a concedere ulteriori prestiti allo stato attuale se l’azionista di riferimento non ricapitalizza la società.

Lei ha svolto un ruolo da whistleblower interno, come si è mosso per questo, anche grazie alle sue competenze da giornalista?

Ho utilizzato innanzitutto le mie competenze da giornalista finanziario, quindi la capacità di leggere i bilanci e i documenti societari. Inoltre, siccome ho lavorato per tre anni al sito web del Sole 24 Ore, sono un utente di internet piuttosto esperto, sono in grado di analizzare grandi quantità di informazioni e anche di raccoglierle su internet con modalità che l’utente medio non conosce. Per esempio, quando ho lavorato al mio libro sul crack della Enron, che uscì nel 2002 per Feltrinelli ancor prima degli altri libri di inchiesta americani, ho costruito un database della documentazione ufficiale della Enron grazie alla capacità di poter recuperare del materiale offline risalendo all’indietro nella memoria del server di quella società – il server era ancora connesso alla rete. Quindi ho potuto recuperare un sacco di materiale che sembrava scomparso. Poi attraverso invece documenti di inchiesta ho trovato quello che nella loro storia ufficiale non c’era. Sono tutti strumenti legali ovviamente, non da hacker, poiché non vado a violare server o siti, utilizzo delle competenze informatiche che mi permettono di andare oltre, unite a competenze finanziarie ed economiche. Recupero le informazioni, le stocco e creo dei grossi database, anche su più hard disk fisici e digitali, per poi analizzare bene i documenti, capire i collegamenti e cercare riscontri documentali. Per evitare rischi legali e querele o richieste di danni in sede civile preferisco avere sempre un supporto documentale. Nel caso dell’inchiesta sulla Di Source, per esempio, mi ci sono voluti quasi sette anni per avere i documenti che mi aiutassero a provare quello che avevo capito e che le mie fonti mi avevano raccontato, perché quando chiedevo alle mie fonti di stampare dei documenti o di fornirmi una copia dei documenti le persone venivano bloccate, addirittura spostate ad altri dipartimenti. Non licenziate, ma comunque messe nelle condizioni di non avere più accesso a quei documenti, che erano quindi in un certo senso “secretati”. È stato molto difficile. Mi dico sempre che se a guidare la Fleet Street News Ltd non avessero messo un italiano, Beltramini, ma un altro prestanome inglese, sarebbe stato ancora più difficile, praticamente impossibile, dimostrare la connessione tra la Fleet Street/Di Source e Il Sole 24 Ore. Un fiduciario non mi avrebbe mai risposto. Negli anni avevo anche trovato i contatti di Martin William Gordon Palmer, perché avevo anche trovato il suo numero di cellulare e il suo indirizzo email, ma non volevo contattarlo perché sapevo che se l’avessi fatto avrei messo sul chi va là proprio le persone su cui stavo indagando.

Come mai, secondo lei, ci sono delle persone interne al Sole che hanno deciso di collaborare con lei? In fondo era molto rischioso anche per loro.

All’interno dell’azienda la percezione che ci fosse qualcosa di opaco era abbastanza diffusa. Le persone che mi hanno aiutato sono persone che non lavorano in redazione, ma che avevano accesso diretto ai documenti perché, ad esempio si occupavano del bilancio, della contabilità, delle fatture. Sono tutte persone con un rapporto di fiducia molto forte con me, perché sanno che io non rivelerò mai a nessuno, nemmeno a un giudice, le mie fonti. In quanto giornalista infatti ho il diritto (e dovere) di mantenere il segreto professionale che è tutelato anche dalla Corte di Strasburgo. Quindi loro si sono fidati molto di me. Poi, a differenza della whistleblower Sharon Watkins del caso Enron, che alcuni hanno accusato di aver semplicemente mandato un’email e aver avuto un confronto privato con il presidente della Enron ma di non essere stata davvero una whistleblower, la mia storia è diversa. Io ho portato dei documenti allegati a tutti i miei esposti e li ho fatti vedere a tutti gli organi di competenza con cui potevo rapportarmi. Un’altra differenza fondamentale è che la magistratura nel mio caso è arrivata dopo i miei esposti. Negli esposti fatti alla magistratura dalla Adusbef non c’erano tutte le informazioni che invece io avevo presentato negli esposti indirizzati in sede civile alla Consob e agli organismi di controllo della mia azienda.

 Insomma, è stato il whistleblower per eccellenza di questa vicenda.

Credo che nessuno meglio di un giornalista economico e finanziario possa fare il whistleblower, per via delle competenze che possiede chi fa questo lavoro. Penso che fare il whistleblower sia l’altra faccia del giornalismo finanziario: se si fa bene questo lavoro si è spesso in grado di arrivare sulle vicende prima dei magistrati, mentre di solito chi si occupa di cronaca giudiziaria si attiva quando ormai ci sono notizie o documenti forniti dai magistrati. Penso che svolgere davvero il proprio dovere di giornalisti sia una strada per essere veramente dei “civil servants”. Però ovviamente ciò significa prendersi qualche rischio. In questa vicenda mi sono preso dei rischi: ho indagato sulla mia stessa azienda. Credo però che chi fa giornalismo partecipativo, per ragioni di trasparenza, se accetta di prendersi dei rischi possa arrivare alle notizie prima degli altri.
Ovviamente, indagando sulla mia azienda e avendo un contratto di esclusiva con Il Sole 24 Ore, non ho potuto scrivere direttamente io questa inchiesta. Dunque non posso che ringraziare tutti i colleghi di altre testate giornalistiche che hanno raccolto i miei esposti e le mie informazioni e hanno fatto uscire questa notizia. L’importante in questo mestiere è lavorare bene, avere i documenti e fare tutte le verifiche, non solo per evitare querele e richieste di danni ma soprattutto per produrre informazione di qualità. Con il mio lavoro su Di Source, Johnsons e su questa storia credo di poter dire di aver dimostrato che quelle che all’inizio erano solo voci erano invece una grossa notizia.