

Da dove viene "La casta"?
A dieci anni dalla pubblicazione del libro di Stella e Rizzo su costi e privilegi della politica, storie di "Bramini" e intoccabili.
“La pianeggiante Comunità montana di Palagiano è unica al mondo: non ha salite, non ha discese e svetta a 39 (trentanove) metri sul mare.” Con questo attacco sull’assurdità di una comunità “non troppo montana” della provincia pugliese il libro "La Casta", di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, approdava dieci anni fa in libreria diventando in breve tempo uno dei saggi di maggior successo in Italia degli ultimi decenni: oltre un milione di copie vendute in pochi mesi, senza contare le edizioni successive. Un autentico caso editoriale che ha portato nelle case di molti italiani una delle inchieste più brillanti su costi e gli sprechi della politica in Italia e aperto un filone editoriale di successo tutt’ora in auge, mettendo in luce per la prima volta un forte interesse dei lettori per l’argomento e un desiderio dei cittadini di essere meglio informati sugli inquilini del “palazzo” al di là della provenienza e dell’appartenenza politica.
Dopo la stagione di Mani pulite, che aveva visto all’inizio degli anni Novanta il crollo di un’intera classe politica coinvolta in indagini e processi per illecito finanziamento dei partiti e arricchimenti personali di varia gravità, la lotta alla corruzione si era di fatto arenata senza fare alcun passo di rilievo sul fronte politico-legislativo. Nel silenzio tornato a coprire una “routine corruttiva” evoluta nel frattempo nelle forme, ma certo non estinta, nel maggio del 2007 quel libro segnò una svolta nella consapevolezza civile e testimoniò un sentimento d’indignazione da allora mai sopito. E lo fece anche grazie al potere di una semplice parola di cinque lettere, “casta” appunto, che entrò con prepotenza nel lessico popolare con un nuovo significato rispetto a quello originario, che fece del termine in poco tempo il sinonimo di fatto di "classe politica" tout court.
La parola era già stata utilizzata in questo senso dal leader del Pd Walter Veltroni che metteva in guardia dal rischio dei “partiti che si fanno caste di professionisti” e ben prima in realtà dal fondatore del Partito popolare Don Luigi Sturzo in un articolo dell’11 agosto 1950: "Corre voce che si vorrebbe stabilire un primo fondo per una cassa pensioni a favore dei deputati che avranno raggiunto un certo limite di età. A me sembra aberrante fare del mandato elettorale, sì e no rinnovabile ogni cinque anni, qualche cosa che confini con la carriera impiegatizia, ovvero il mandarinato... Una cassa pensioni deputatizia ha un effetto deplorevole nell’opinione pubblica, dando l’impressione di voler creare o consolidare una casta". Ma bisogna attendere appunto il libro dei due giornalisti del Corriere della Sera perché gli aspetti deteriori della politica corporativa vengano associati con il rigido millenario sistema gerarchico di natura ereditaria che caratterizza tutt'ora la società indiana con la sua netta separazione tra le classi sociali.
Il sottotitolo cita addirittura i paria (in realtà fuori casta): “Così i politici italiani sono diventati intoccabili”. E per la precisione prima della pubblicazione il titolo di lavoro era un altro, "Bramini", e indicava in modo ancor più netto (sia pure forse meno immediato) una sola di quelle caste, quella dei sacerdoti e degli intellettuali, interpreti dei sacri testi e detentori di un potere e di una posizione di prestigio nel rigido schema piramidale.
Curando all’epoca la pubblicazione del libro come responsabile della saggistica in Rizzoli (motivo che m’impedisce di professare una totale neutralità in queste righe), mi sono trovato più volte a pensare insieme agli autori cosa sarebbe accaduto se non avessimo deciso di cambiare il titolo del volume poco prima dell’uscita in libreria: il successo sarebbe stato uguale? Si parlerebbe oggi in Italia dei "bramini" della politica (e non solo della politica ormai) anziché dei privilegi della "casta"?
La questione della corruzione non è purtroppo solo semantica. Risalire alle origini di un termine che ha avuto tanta fortuna, con tutti i pregi e i difetti che comporta semplificare una questione ampia e complessa in una sola parola, rivela aspetti interessanti sulla nostra storia politica e sociale.
La parola "casta", che deriva dal latino castus [puro, non mescolato], viene utilizzata forse per la prima volta con il significato di "razza" dai coloni spagnoli e portoghesi in India. A studiarla a fondo è stato Louis Dumont in Homo hierarchicus, dove l'antropologo evidenzia come "le caste ci insegnano un principio sociale fondamentale, la gerarchia, a cui noi moderni ci siamo opposti ma che è molto interessante per capire la natura e i limiti dell'egualitarismo morale e politico al quale siamo affezionati."
La divisione in caste è tipica delle società arcaiche olistiche, fondate sull'interdipendenza dei membri e su una specializzazione dei compiti (in particolare nella divisione del lavoro) orientata ai bisogni di tutti ma ben lontane da ogni concetto e pratica di eguaglianza e libertà. Società quindi ben distinte da quelle moderne, individualistiche occidentali in cui prevale l'egoismo democratico dei cittadini.
Nel caso indiano vige una stretta gerarchia del puro e dell'impuro stratificata nei quattro varna o colori: dall'alto al basso, i Brahmani o sacerdoti, gli Kshatriya o guerrieri, i Baishya o mercanti e gli Shidra o servitori, cui va aggiunta la categoria extracasta degli intoccabili. Le caste hanno in genere organi di governo ma in ogni caso prevale al loro interno il potere dei brahmani che decidono anche nei conflitti tra una casta e l'altra anche se queste sono tendenzialmente solidali al loro interno, se necessario anche contro il potere dello Stato.
Lo stesso Gandhi, padre dell'India indipendente moderna, fu favorevole inizialmente all'equilibrio garantito da un sistema in cui ogni individuo occupa il suo posto e svolge un compito preciso. Ma nella società in cui dovrebbe prevalere il bene comune e l'ideale del dharma si fa strada in realtà inevitabilmente l'artha e cioè la mira, l'interesse politico economico, l'azione diretta insomma a fini egoistici, come evidenziato nell'Arthashastra, celebre testo sull’arte del governo scritto nel IV secolo a.C. da Kautilya, ministro del re indiano Chandragupta Maurya. Un testo in sanscrito riscoperto nel 1905, che documenta anche il vasto ed eterno fenomeno della corruzione.
Secondo l’autore, contemporaneo di Aristotele, chi governa deve usare ogni mezzo per raggiungere i propri obiettivi, mentre regole di rigore e onestà sembrano valere, almeno nella sostanza, solo per i sudditi. Un messaggio che ha finito in qualche modo per affiancare Kautilya a Machiavelli nonostante l’infinita distanza dei contesti storici in cui i due hanno vissuto e scritto.
Tra le sue sentenze, la più celebre è forse quella relativa alla difficoltà di provare la disonestà finanziaria del pubblico ufficiale: "Non assaggiare il miele o il veleno posto sulla lingua è difficile quanto maneggiare i soldi del re senza assaggiarne almeno una piccola parte." Checché ne pensi Dumont, insomma, la logica gerarchica appare fallimentare e intollerabile sotto ogni profilo e proprio per questo il termine "casta" risulta così efficace nel mettere all’indice ogni forma di discriminazione soprattutto se fondata sulla ripartizione di lavoro e compiti sociali.
Così efficace da aver costretto il Parlamento italiano ad iniziare a riformare e comunque diminuire il finanziamento pubblico dei partiti, a limare i costi delle Camere, a introdurre prezzi quasi “di mercato” alla Buvette, a diminuire gli affitti indecorosi dei palazzi superflui, a limare i parchi delle auto blu, a presentare dossier di spesa e bilanci, a introdurre concorsi per le assunzioni, a porsi quantomeno il problema della reazione dei propri rappresentati di fronte alle uscite ingiustificate del pubblico erario. Con la conseguenza di favorire involontariamente la nascita di movimenti politici che hanno fatto del richiamo alla trasparenza la propria principale bandiera politica o di favorire all’interno dei partiti tradizionali l’affermazione di leader pronti a promettere tagli delle provincie, riduzioni dei vitalizi e riforme che si sono spesso arenate di fronte al paradosso di un organo legislativo che di fronte alla richiesta di votare la sua stessa “diminutio” evita naturalmente di farlo appena possibile.
Ora, che la politica faccia propria la causa della battaglia anti-sprechi è ovviamente un fatto positivo ma con un corollario inevitabile: quello dell’annacquamento deleterio delle istanze civili nate dall’inchiesta originaria e dell’annullamento del suo autentico slancio innovatore. Nonostante tutto però l’indignazione di fronte all’aumento degli inquisiti e degli scandali, la ricerca di trasparenza e il senso di giustizia restano punti fermi per buona parte dei cittadini della Penisola e il grido di protesta e di allarme per la comunità in crisi di quell’inchiesta del 2007 è ancora vivo, mentre la fiducia sempre professata dagli autori del libro nella politica, nella democrazia e nei partiti continua a far cadere nel vuoto ogni facile accusa di demagogia e populismo o i più scomposti tentativi di delegittimazione, come quello di Massimo D’Alema del 2011 : "La parola Casta non è stata inventata da due brillanti colleghi" dichiarò. "Casta dei politici compare nel dibattito pubblico italiano per la prima volta in un documento delle Brigate Rosse e ha mantenuto quella impronta; ogni qualvolta la si usa, bisognerebbe pagare una royalty agli ideatori, e lo si fa culturalmente". Il parallelo tra una battaglia di denuncia morale e una banda di assassini non merita evidentemente commenti ma proprio la reazione fuori luogo di chi si sente colpito in prima persona rivela quanto la metafora dell’odiosa divisione settaria dell’antico sistema sociale della tradizione indiana abbia colto drammaticamente nel segno.
Carlo Alberto Brioschi, editor, scrittore e giornalista, è autore, tra l’altro de
Il malaffare. Breve storia della corruzione e Il politico portatile. La questione morale da Aristotele ai Simpson.
Questo il suo blog 'Libri e non'.
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